Aveva ventidue anni Wilhelm von Gloeden quando, nel 1878, arrivò a Taormina. Aveva studiato arte a Weimar ed era affetto da quello che allora si chiamava mal sottile. Lasciata la famiglia, piccola nobiltà del Mecleburgo, un secolo dopo Goethe, scopriva il paese “dove fioriscono i limoni”. Dipingeva, ma era attratto dall’arte nuova: la fotografia. Suo cugino Wilhelm von Pluechow, protofotografo di ritratti e nudi a Napoli sembra gli abbia suggerito, durante il viaggio verso l’Etna, che di fotografia si poteva anche campare: lui lo faceva. E il giovane rampollo dei baroni Gloeden quando sbarca in Sicilia entra in contatto con intellettuali, come lui, e fotografi come Giovanni Crupi e Giuseppe Bruni che padroneggiavano la fisica e la chimica per ottenere stampe fotografiche. Con caparbietà teutonica si mette all’opera. Osserva, impara, sperimenta formule alchemiche e sistemi innovativi di stampa sino a “brevettare” un metodo (quello dei negativi su carta ritoccati sul retro a matita) che gli consentirà di ottenere dei positivi a contatto di straordinaria singolarità e morbidezza. Il suo gusto da pittorialista lo porta anche a produrre stampe su carta filigranata, intonata al rosso mattone, che fanno apparire alcune sue foto come di origine litografica e a praticare con estrema maestria la collotipia, il sistema di stampa allora più in voga. Gloeden fotografa di tutto. Naturalmente i paesaggi, nei quali posiziona umani per agevolare la lettura tridimensionale del risultato; naturalmente le scene di genere, nelle quali documenta costumi e attitudini di quel mondo siciliano che anche Verga aveva raccontato con parole e immagini e, all’occasione, diviene anche reporter scattando quelle fotografie delle conseguenze del terremoto di Messina, nel 1908, che compariranno nel grande album edito, l’anno seguente, dalla Società Fotografica Italiana.
Ma le sue foto più famose sono tentativi, ottimamente riusciti, di far rivivere il mito della bellezza greca e comunque classica. Il Mongibello diviene allora l’Olimpo e i fanciulli e più raramente le fanciulle che posano per lui diventano fauni e ancelle. Con l’aiuto della sorellastra Sofia Raab acconcia tableaux vivant con scene semplici, ma abilmente composte, che spesso includono rovine che in zona non mancano. I soggetti sono spesso nudi. Fanno scalpore? Non ufficialmente. Di certo in paese si sarà mormorato del lavoro (chè tale divenne l’antica passione dal 1895, quando la famiglia subì un tracollo finanziario e Gloeden dovette inventarsi una professione redditizia) del bel barone, ma il nudo era quotidianità nei posti di mare e per certo il barone era generoso coi modelli, e di conseguenza con le loro famiglie, e il denaro ha sempre comprato i silenzi ufficiali. Si bisbiglia di omosessualità, ma nessuno si scandalizza più di tanto. A casa Gloeden arrivano Oscar Wilde e il re del Siam, Edoardo d’Inghilterra e Augusto di Prussia, Eleonora Duse ed esponenti delle grandi famiglie dei tycoon del momento, dai Krupp ai Rothschild, dai Morgan ai Vanderbilt. Tutti sono attratti dal sole di Sicilia e dalle fotografie del barone che intanto hanno vinto premi nei più importanti saloni europei e sono state consacrate come “artistiche” con la pubblicazione, nel 1897, su Camera Notes, la mitica rivista newyorkese di Alfred Stieglitz. Persino il Ministero dell’Istruzione di Roma si accorge del lavoro di Gloeden e nel 1906 gli assegna una medaglia d’oro. Le immagini che qualcuno ancora oggi giudica sconce sono in effetti di una ingenuità persino sconcertante. Italo Zannier, il noto e apprezzato storico della fotografia, ha scritto a riguardo: “I suoi nudi sono ingenui e, come quelli di Mapplethorpe, sono sterilizzati dalla bellezza”.
Nella casa laboratorio di Taormina il lavoro di Gloeden è regolare. Le foto si vendono ai potentati e ai turisti. I giovani Pan e le vedute del teatro greco finiscono anche in formato cartolina nelle buche delle Regie Poste come supporto dei “Saluti dalla Sicilia” inviati da escursionisti di tutto il mondo agli amici rimasti a casa. Quando nel 1931 Gloeden muore il suo archivio di lastre e di stampe va in eredità al suo fido assistente Pancrazio Bucini, modesto fotografo che continua l’attività di “cartolaio”. Almeno fino a quando un solerte funzionario del tribunale di Messina, con la “cimice” all’occhiello della giacca, non tenta di incriminarlo come divulgatore di pornografia. Dopo un processo durato tre anni il Bucini viene assolto dal crimine di aver oltrepassato il “comune senso del pudore”, ma un congruo numero di lastre e di stampe vintage è andato nel frattempo disperso o distrutto. Nel 1978 a Spoleto, durante il Festival, il collezionista e storico dell’arte Lucio Amelio espone parte del fondo fotografico originale che era giunto in suo possesso e Gloeden diventa addirittura modello ispiratore di artisti allora d’avanguardia come Warhol e Beuys.