Sono le 13, quasi precise, del 23 dicembre 2009 quando, attirato da un tabernacolo che protegge una Madonnina in veste rosa, chiedo all’autista che mi guida verso Mysore (Tamil Nadu, India sudorientale) di fermare l’Ambassador bianca sulla quale viaggiamo. Il villaggio nel quale mi inoltro non è altro che due file di abitazioni che si fronteggiano per circa ottanta metri. Alcune hanno il tetto di paglia, altre di tegole di terracotta. C’è qualche palma. C’è la corrente elettrica, ma non il cartello col nome del villaggio, che resterà, per me, “non meglio identificato”. La mia intrusione in quel microcosmo non provoca grosse reazioni negli abitanti, ma l’interesse di una banda di ragazzini che mi ronzeranno intorno senza mai zittirsi fino alla mia ripartenza. Ci sono quasi solo donne dinanzi agli usci, indaffarate nello scorticare noci di cocco. C’è un telefono per chiamare in tutto il mondo. Ci sono capre e bambini nudi. Un nonno, commosso e commovente, con in braccio il nipotino appena nato. C’è quello che i ragazzini tormentano come lo scemo del villaggio, e una Sacra Famiglia appiccata ad un chiodo su un muro. Tutti vogliono essere ritratti. Lo faccio, e alle 13,15 risalgo in auto. Con 24 foto in più nella memoria della fotocamera e innumerevoli contrastanti sensazioni nella mia.