La furia iconoclasta degli adepti all’ISIS, il moderno califfato, scatenatasi nel museo di Mosul, l’antica Ninive, la capitale della cultura mesopotamica, e dettagliatamente documentata con filmati, ha sconvolto in questi ultimi giorni di febbraio del 2015 i telespettatori del pianeta. I servizi diffusi dai responsabili della propaganda del califfato sono stati generosamente accolti nei palinsesti di tutte le emittenti televisive del globo. La furia degli adepti barbuti dell’ultima, in ordine di tempo, delle rivoluzioni teocratiche, in tuta bianca, con randelli primitivi e martelli pneumatici si è abbattuta su statue millenarie, testimoni di una cultura che, essendo altra dalla loro, andava cancellata. Il passato non deve condizionare il presente rivoluzionario. Può, al contrario, finanziarlo con la vendita di reperti archeologici su un mercato senza troppe regole, come già denunciato da archeologi e studiosi cui non sono stati però dedicati troppi minuti in televisione e troppe colonne sui giornali. Non è la prima volta che un tale scempio si consuma. La Storia dell’umanità abbonda di episodi analoghi. Senza eccezioni “continentali”. Biblioteche bruciate, templi violati, musei distrutti o smembrati. Dove la ragione non trova conforto e consensi interviene la violenza. E oggi più che mai tale violenza si trasforma in facile propaganda grazie alle immagini che raggiungono, attraverso la Rete, in tempo reale chiunque, dovunque. Le guerre di questi giorni si consumano in luoghi dal passato importante. Eserciti ben armati, con uniformi riconoscibili e non, bombardano territori e città che hanno significato molto nell’evolversi dell’Uomo. Penso anche alla Libia, dominata oggi da due governi, con sedi a Tobruk e Tripoli, dei quali solo il primo è riconosciuto dall’organizzazione degli stati sovrani, che si fronteggiano da mesi e dove opera anche un esercito, quello dell’Isis, del quale poco si sa (o si vuol far sapere). I media italiani (ed europei) balbettano nel raccontare le odissee mediterranee dei profughi, degli extracomunitari, dei fuggiaschi, dei… (nuovi termini che risultino politically correct si inventano ogni giorno per definire quei disgraziati che affidano il loro destino a gommoni, barconi, carrette del mare). Penso alla Libia che ebbi l’occasione di visitare nel 2004, solo dieci anni fa, anche se sembra un secolo, e che mi apparve, nelle sue contraddizioni, come dalle fotografie che seguono, e mi chiedo cosa ne sia! Cos’è toccato a Bengasi alle architetture razionaliste realizzate dagli architetti italiani di regime Cabiati e Alpago Novello? Che succede ad Apollonia? E a Tolemaide risuona ancora l’eco nel teatro romano? A Cirene è ancora in piedi il Tempio di Apollo? E la casa di Giasone si fregia ancora dei suoi mosaici? Le palazzine dei ministeri di Hun, la capitale nel deserto, che Gheddafi fece costruire per far dimenticare Tripoli sono mai state inaugurate? E di Leptis, la città grande dei Severi che competeva con Roma per magnificenza, cosa rimane? Che ne è del Foro con i fregi marcati da imponenti teste di leone in pietra? E del mercato del pesce coi suoi splendidi banchi marmorei sorretti da grifoni? E a Sabratah, si levano ancora le colonne dell’imponente teatro? A Tripoli di certo non si gioca più a scopa con carte Modiano, né si gustano espressi distillati da macchine italiane, né si tifa più per la Juventus. E l’università dove le studentesse erano numerose esiste ancora? E i mosaici romani e le statue di marmo conservati nel museo archeologico sulla piazza della Rivoluzione sono ancora al loro posto? Cos’è dei monumentali bronzi dei fratelli Fileni, smantellati dall’arco che il fascismo volle edificare per marcare il confine tra Tripolitania e Cirenaica e che Gheddafi relegò nel piccolo museo di Sirte dopo averli lasciati nel bel mezzo della litoranea per una trentina d’anni? Le statue romane di Apollo saranno riscoperte nei parchi di ville hollywoodiane? E i mosaici accanto alle piscine? Chissà?