Il 7 di quel mese, un lunedì, disperando di convincere la proprietà a rilanciare l’azienda, gli attivisti della Confédération française démocratique du travail varcano in massa l’ingresso di una vecchia filatura del gruppo, al 192 di avenue de Colmar: uno stabilimento in disuso da diversi anni sul quale circolava una strana leggenda che parlava di una fantomatica collezione di automobili dei padroni. Fantasie, pettegolezzi, maldicenze? Un fatto era certo: al passaggio di ogni manifestazione operaia un cordone di polizia si schierava in difesa di quel rudere. Forse nella filatura diroccata c’era davvero celato qualcosa d’importante.
Gli scioperanti ottengono la risposta in pochi minuti: dove c’erano stati macchinari per la lavorazione della lana, trovano automobili di lusso a perdita d’occhio. Sono 400, una più bella dell’altra, alcune rare, altre uniche. Tutte sono perfettamente restaurate. Hai capito i fratelli Schlumpf! La verità affiora rapidamente in tutta la sua follia: la loro passione giovanile per le belle auto, nei precedenti 15 anni si era trasformata in una sorta di dipendenza che li aveva portati a dilapidare buona parte degli introiti aziendali in uno spasmodico furore collezionistico.
Non mancava loro il gusto: la raccolta conta le più belle automobili mai prodotte. Ad aggiungere un tocco surreale alla vicenda, nella sala ci sono anche un gigantesco organo belga del 1910, dozzine di statue in marmo e 900 lampioni déco a imitazione di quelli del ponte Alexandre III di Parigi. Ma il pezzo forte è la targa in bronzo con la quale Hans e Fritz dedicano il museo all’amatissima mamma Jeanne. Il museo?! E quale museo? Chi ne aveva mai sentito parlare?
Fu la stampa a ricomporre il mosaico. Gli Schlumpf avevano acquistato la prima auto alla vigilia della seconda guerra mondiale, una Bugatti 35B, con la quale Fritz si sarebbe anche cimentato in qualche gara. E fin qui tutto bene, anzi tutto bene fino al 1960 quando, folgorati non si sa da quale demone, i due cominciano a negligere gli affari dedicandosi anima e portafogli alle quattro ruote. Comprano a destra e a manca in preda a un’inspiegabile bulimia, e tutto quello che non trovano in perfetto stato fanno restaurare da artigiani pagati tanto per il lavoro quanto per il silenzio. Nella sola estate del 1960 acquistano quaranta vetture, tra le quali dieci Bugatti, tre Rolls-Royce, due Hispano-Suiza e una Tatra. A queste si aggiungono, poco dopo, tre Lotus da corsa comprate dal pilota Jo Siffert e una monoposto Ferrari fatta arrivare direttamente dal reparto corse di Maranello.
La collezione è ormai la principale occupazione dei due e la smania, se possibile, aumenta ancora: nel 1962 contattano tutti gli iscritti al registro Bugatti offrendo di comprare le loro auto, e con cinquanta di essi concludono l’affare. Ma non basta: 18 auto vengono acquistate direttamente da Ettore Bugatti, compresa una maestosa Napoleon Coupé considerata a oggi la più costosa automobile mai prodotta. Nel giro di cinque anni le Bugatti diventano 105 e le macchine in totale superano le 300.
Ma torniamo a quel 7 marzo 1977, al 192 di avenue de Colmar e alle facce esterrefatte degli operai. Possiamo forse immaginare i sentimenti di uomini e donne, privati da mesi del salario, di fronte a tutto ciò che dimostrava l’indifferenza dei padroni nei loro confronti. Adesso lo sfogo alla rabbia accumulata per anni, decenni, forse per generazioni, era lì a portata di mano, come un sogno che la mattina invece di dissolversi si concretizza. Bastava appiccarlo e il fuoco della giustizia proletaria avrebbe trasformato in cenere tutta quell’arroganza borghese. E invece.
E invece la vendetta fu sublime nella sua prosaica efficacia: i lavoratori requisirono i locali e li aprirono immediatamente al pubblico a un prezzo popolare, così che dalla più elitaria delle collezioni, talmente esclusiva da non aver mai avuto visitatori, venne il pane per le famiglie dei disoccupati e degli scioperanti.
Oggi, a quarant’anni da quei fatti curiosi, la collezione, dopo ricorsi, sequestri, dissequestri, patrocini e acquisizioni, è diventata la Cité de l’Automobile e, cortesia della ritrovata pace sociale, conserva, seppur per inciso, il nome dei due ineffabili fondatori.
Tutelato dal governo francese quale patrimonio culturale, il museo ospita 520 vetture (circa 100 i marchi) ripartite secondo itinerari tematici che ripercorrono la storia dell’automobile. Fiore all’occhiello le oltre 100 Bugatti, anche questo ovviamente un primato. Si tratta senza tema di smentita della più completa e aristocratica collezione automobilistica del mondo, e altrettanto certamente della più… proletaria.
Impenditori forse un po’ gaglioffi ma grandi conoscitori delle quattro ruote, i fratelli Hans (1904-1989) e Fritz (1906- 1992) Schlumpf (madre alsaziana, padre svizzero) prima di spendersi tutto in macchine veloci come i calciatori meno avveduti, avevano creato un impero. Fondata la Societé anonyme pour l’industrie lanière nel 1935, i due arrivarono a rilevare decine di imprese della zona tanto che nel 1971 potevano affermare di controllare l’intero settore laniero. Purtroppo per loro quella che non tennero mai sotto controllo fu la mania per le auto. Allo scoppio dello scandalo che li coinvolse, fuggirono in Svizzera, dove vissero il resto della vita continuando a rivendicare invano le proprie auto in ogni sede legale. Gli eredi ancora oggi tentano di riabilitarli sostenendo come fosse stato il governo di Parigi a bloccare (per motivi misteriosi) la vendita della collezione nel 1976, quando i due tentavano di ricapitalizzare le proprie aziende. La verità, ça va sans dire, non la sapremo mai e ci toccherà consolarci con la loro bella collezione.