I Greci chiamavano Μάρμαρον, pietra splendente, quella roccia metamorfica di calcare alla quale affidavano ciò che meritava di essere tramandato. Di quella “pietra splendente” si alimenta il mito millenario delle Alpi Apuane: quelle montagne che chiudono a corona l’orizzonte del litorale della Versilia, al nord ovest della Toscana, assecondando la lenta curva della costa con imponenti, candidi, bastioni. Nucleo vitale di questa regione è da sempre il popolo del marmo: quei lavoratori che lo strappano alla montagna e quegli artigiani che lo lavorano con perizia nei laboratori a valle.
Una visita a un laboratorio artistico del marmo è, anche per gli addetti ai lavori, un’esperienza singolare. Sugli scaffali impolverati si affastellano i modelli in gesso di sculture di ogni età, stile, autore; soggetti sacri e profani, opere di ignoti accanto, senza alcun pudore, alle repliche di icone assolute dell’arte. Ricordano la storia di quella bottega: gli incontri, le commesse, le tante vicende che lì si sono intrecciate. Sui trespoli prendono forma le opere in lavorazione, sempre diverse nel correre dei giorni; nelle casse giacciono i marmi già finiti, pronti a partire per ogni angolo del mondo. All’opera attori muti, con le cuffie per non diventar sordi, su una scena che ha molto di teatrale. E se agli inizi del secolo scorso il lavoro era organizzato intorno alle distinte competenze di sbozzatori, che sgrossavano il blocco, smodellatori, che sagomavano l’opera, ornatisti che si dedicavano agli elementi decorativi, accessoristi e pannisti che curavano dettagli e panneggi, scultori e anatomisti che definivano le espressioni dei volti e le articolazioni dei gesti, fino ai lucidatori che provvedevano a finire e patinare le superfici, oggi, a quelle specializzazioni si sono sostituite figure di artigiani sempre più completi.
Agli Studi d’Arte Cave Michelangelo, a Carrara, intorno ai trespoli, si confrontano scultori artigiani e artisti di riconosciuta fama internazionale che arrivano con un disegno, un bozzetto, a volte una fotografia, o semplicemente degli appunti, per affidarli alla progettazione esecutiva e alla realizzazione delle maestranze. La vicenda può apparire un paradosso, o addirittura uno scandalo per chi crede che l’autenticità dell’opera sia legata al concetto di autografia. E il dibattito in merito ha origini lontane. Si scatenava ancora cinquanta anni fa, quando si pretendeva autentica solo l’opera che la mano dell’artista avesse realizzato dall’inizio alla fine. In quel contesto Pier Carlo Santini, personaggio chiave della rivalutazione critica dei laboratori artistici del secondo Novecento, prospettava l’analogia fra scultura e architettura, laddove era a tutti evidente che un edificio non si concretizza mai per la sola mano dell’ideatore progettista.
A visitare gli Studi d’Arte Cave Michelangelo si capisce bene quanto sia decisivo, per il risultato finale, l’intervento delle maestranze, chiamate a una qualità d’intervento capace di non banalizzare o impoverire l’idea e la visione dell’artista. Si devono alla strepitosa capacità degli ignoti scultori del laboratorio il fine dettaglio dei cervelli firmati da Jan Fabre, la Pietà di Michelangelo rivisitata dallo scultore belga nella Madonna dal volto di teschio, i nudi eterei di Vanessa Beecroft, il Dito medio di Maurizio Cattelan per la piazza della Borsa di Milano, il mitico Inno alla sconfitta, pensato dall’algerino Adel Abdessemed, in ricordo della testata di Zidane ai Mondiali del 2006. È in questa bottega che sono stati realizzati interventi d’inaudita maestosità finiti in Cina, Vietnam, Thailandia, Ucraina. Negli Studi si sono succeduti fra i tanti Gio Pomodoro e Francesco Somaini, Mario Merz e Dany Karavan, Nagasawa, Floriano Bodini, Soll Lewitt e, in tempi più recenti, Paul Mc Carty, Giuseppe Penone, Anna Cromy.
In cava a dodici anni, cavatore, lizzatore, filista, tecchiaiolo, Franco Barattini, oggi proprietario delle Cave Michelangelo, nel bacino del Polvaccio, sovrintende a ogni dettaglio tra cava, uffici, segheria e laboratori. Accanto a lui Luciano Massari, scultore, docente all’Accademia di Belle Arti e direttore artistico, segue da vicino la progettazione e l’esecuzione delle opere, curando direttamente il rapporto con gli artisti, che alla sua sensibilità si affidano. E gli angoli più discreti dell’imponente spazio accolgono anche le sue opere: le sue isole, le impronte, gli interventi di lirica ispirazione ambientale, le superfici lunari, in materiali e colori diversi, che evocano a volte i riflessi abbacinanti del mare, a volte orografia come viste dall’alto, a volte ancora le scabrosità della terra, scavate ed erose dal tempo. Si appannano, durante la visita, i pregiudizi. Non solo quelli relativi all’autenticità dell’opera, ma anche quelli intorno al senso e al valore della copia, testimone diretta della vitalità e della fortuna delle icone universali. Non a caso il mitico David, in scala uno a uno, realizzato nel laboratorio per la biennale fiorentina Florens del 2010, è diventato una sorta di logo degli Studi d’Arte, e viaggia per il mondo come ospite d’onore di importanti mostre.