In ambienti di favolosa e temeraria irrealtà, fra eleganze e sofisticazioni, in una luminosità penetrante, fosforica quasi, come in una Disneyland della mente, si dispiegano, in Santa Maria Novella, a Firenze, lussureggianti e immaginifiche le storie affrescate dal pittore fiorentino Andrea di Buonaiuto, seguace giottesco del secolo quattordicesimo. Nel ciclo pittorico colpisce l’addensarsi dei personaggi immersi in una luce non più banalmente fisica, ma come erogata direttamente dall’interno. Una luce che dona tonalità caramellose, rosa incredibili, gialli carichi, violetti improbabili che si dipanano fra elementi antropomorfi o zoomorfi, fibule, armille, manti, zanne, barbe dalle fogge bizzarre, animazioni sguscianti e stilizzate di sagome e figure. Correva il 1367, quando Andrea poneva fine agli affreschi nella Sala Capitolare del Convento di Santa Maria Novella, a Firenze. Li aveva pagati certo Buonamico di ser Lapo Guidotti, in memoria della moglie Branda, scomparsa durante la terribile peste nera del 1348.
Oggi si accede alla gran cappella dall’affaccio sul Chiostro verde, nel cuore del più importante complesso domenicano cittadino per immergersi in uno dei più straordinari e affascinanti dipinti di età gotica, in quella sala che i fiorentini chiamano Cappellone degli Spagnoli, da quando, nel tardo ‘500, la sposa di Cosimo I Granduca di Toscana, Eleonora di Toledo, arrivò in città con la sua ricca corte, che qui prese alloggio. Per chi ha studiato Andrea di Buonaiuto la sfortuna critica del ciclo è tristemente nota: viene per lo più liquidato come frutto di un momento di stanchezza dell’arte fiorentina, avvilito per presunti segni di schematismo compositivo, di calo inventivo; se ne denunciano la colpevole assenza di prospettiva giottesca e l’indugio su dettagli poco significativi, piuttosto descrittivi, se non convenzionali o patetici. E non si tace la noia di fronte al tono celebrativo con cui è esaltato, sul piano della storia, il ruolo dell’ordine domenicano, con particolare riguardo alla lotta dell’eresia per la salvezza della Cristianità. L’attenzione semmai si focalizza sulle storie di destra, dove la Chiesa militante, incamminata lungo la Via Veritatis, raccoglie le autorità religiose attorno ad una sorprendente Santa Maria del Fiore con tanto di cupola, in un tempo in cui nessuno sapeva ancora come risolvere i problemi di statica che la copertura presentava, e dunque con anticipo di ben quasi un secolo rispetto alla soluzione brunelleschiana. Lungo il fianco della cattedrale si affollano, intorno al Papa, religiosi e cittadini dabbene, accanto a uomini delle più differenti condizioni sociali, a rappresentare il gregge dei cristiani, custoditi dai cani pezzati bianchi e neri, ossia i “cani del Signore” , dal latino domini cani, come amavano definirsi i domenicani dal saio bianco e nero; ai piedi di questa scena, in chiave allegorica, i cani pezzati inseguono dunque e sbranano i lupi e le volpi, difendendo la Cristianità. Eppure la convenzionalità del linguaggio e le finalità celebrative paiono svanire, allo sguardo attento di chi abbia la pazienza e la capacità di soffermarsi, osservare, entrare dentro ogni storia, inseguire i personaggi, annotare le fisionomie, ciascuna differente, marcata, singolare, espressiva. Variegatissima è la scelta dei costumi, sorprendente l’antologia delle acconciature e delle vesti. Ecco un gruppo di giovani spensierati, presi dalla musica, dal ballo, dalla raccolta di frutti. Poco distanti, a distrarre dalla Retta Via, i volti incombenti dei Vizi, la Superbia con il suo falco, la Lussuria con la scimmia, l’Avarizia. Poco distante, nella Discesa al Limbo, altri dettagli colpiscono la fantasia di chi guarda, e, soprattutto ecco i diavoli mostruosi, dai velli squillanti, dal ghigno mostruoso e grottesco.
Le affinità con tanta pittura contemporanea, sulla scia postmoderna e transavanguardista, dagli anni ottanta a oggi, non sfuggono. Vengono in mente le eleganze formali, le cromie attraenti di quella che nei primi ‘80 chiamavamo“arte ricca”, alludendo alla guerra dichiarata ai precedenti “poveri” e ideologizzati “giotteschi”, come diremmo ora riferendoci alle categorie dell’elementare, del primario, infine soppiantate dal ritorno al piacere degli occhi. Così oggi il Cappellone degli Spagnoli – fra effetti di schiacciamento e stilizzazione lineare, racconti e descrizioni – può apparirci non distante dallo splendido immaginario di un video game; e Andrea di Buonaiuto farsi ricordare per il suo “futurismo gotico”, degno di un graffitaro della subway newyorkese anni ottanta, fra Haring e Rammellzee, spray e lampostyl in pugno, nella giungla infinita dei racconti senza età.