Pierre Loti (1850 – 1923), al secolo Julien Viaud, scrittore dandy ebbe mille anime. I suoi libri, che gli danno presto fama e gloria, indagano nelle culture degli Altri, quelle che il suo mestiere di ufficiale di marina gli permetteva di conoscere e la sua curiosità di studiare. Quelle che amò al punto di voler realizzare, dopo decenni di viaggi e una dozzina di libri, nella casa di famiglia a Rochefort, nella Charente Maritime, il suo personale Topkapi. Lo adornò con le suppellettili e gli elementi architettonici sopravvissuti all’incendio della sua estemporanea dimora di Eyüp, nei pressi di Istanbul, dove si era consumata la travagliata storia d’amore con la giovane circassa Hatice, narrata nel romanzo Aziyadé (1879).
A Rochefort, al 141 della rue che oggi porta il suo nome, dietro la facciata lineare di una casa borghese, Loti inventa il suo rifugio. Sistema colonnati che sorreggono archi a ferro di cavallo intagliati; stende tappeti uno sull’altro, alla maniera beduina; riempie gli spazi con divani, cuscini, drappi, armi decorate e strumenti musicali, lampade in ottone traforato e narghilè. Vuole una stanza rivestita di piastrelle blù, bianche e celesti che evochi una moschea: un’intima fantasia orientalista nella quale sistema anche cinque bare coperte da drappi damascati secondo la voga dell’Islam. E nella quale non esita a esibire la stele tombale di Hatice, l’amante ripudiata.
In questa moschea Loti si apparta per leggere e fumare. Riceve invece gli ospiti di cene e feste nell’atrio gotico, una sorta di lugubre tributo all’occidente medioevale. Li accoglie in abiti turcheschi e i suoi camerieri indossano livree ottomane. S’inebria di colore e di ricordi. Non perdona al suo Paese, e alle altre potenze europee, le trame in corso per spartirsi le spoglie dell’impero ottomano (La Turquie agonisante – 1913). L’aveva già fatto su Le Figarò, trent’anni prima, denunciando le atrocità in corso in Indocina. I fatti di oggi sembrano dargli ragione.