C’era una volta il giornalismo. Languiva tra le nebbie che ammantavano di miti e misteri la professione riservata a chi sapeva di belle lettere. Ai dottori. C’erano i cronisti, giovani e attempati, i redattori dal culo di pietra che non si schiodavano dalla loro sedia imbottita e coi braccioli, gli estensori di elzeviri colla cravatta a farfalla, i capi servizio con gli occhiali tondi e i caporedattori col pizzo, inflessibili, i corrispondenti, gli invidiati inviati, speciali e non. E dietro porte alle quali quasi nessuno osava bussare c’erano i direttori. Poi c’erano gli informatori, i pretendenti a ricoprire qualsiasi ruolo pur di essere nel giro, i professori di ginnastica che scrivevano di sport, gli avvocati che aspiravano a uno scranno in parlamento e sfornavano illeggibili commenti politici. C’erano i taccuini e le matite, i timbri e le penne biro. C’erano le cicche schiacciate in posacenere sovraccarichi e stanze fumose e mal riscaldate. Tazzine da caffè che si accumulavano agli angoli di scrivanie modello ministeriale, telefoni neri con la linea interurbana che cadeva di continuo. Segretarie e stenografe. Le macchine da scrivere col nastro blu e rosso che bisognava riavvolgere, a mano, sino a quando era ancora in grado di trasmettere qualche traccia dai tasti sulle veline. La carta copiativa. E c’erano i fotografi, flash sempre innescato e lampade di ricambio in tasca o in bocca. C’erano le camere oscure, umidi antri dove i negativi venivano strapazzati e rigati per la fretta di svilupparli, e asciugati col phon,
perché la chiusura era imminente, e dove la luce rossa rendeva tutti i presenti inquietanti mostri. C’erano i correttori di bozze, i linotipisti, i tipografi. Gli strafalcioni e le ribattute. Le rotative. I camioncini. Gli strilloni, le locandine, le edicole che sapevano dell’inchiostro dei quotidiani che anneriva le dita dei lettori avidi delle prime edizioni. Poi in punta di piedi è arrivata l’elettronica. Pochi ci capivano. Armata di una falce invisibile spazzava via, rapida, competenze e mestieri. I manager la presentavano agli editori come “innovazione tecnologica indispensabile per il risanamento dei bilanci”. L’ha avuta vinta prima che gli allarmi diffusi dagli altoparlanti fossero percepiti. Ha provocato uno tsunami devastante dal quale è generato il giornalismo contemporaneo. Uno spettacolo con un unico attore che si mette in scena grazie al solo telefono intelligente, oggetto plurifunzionale che permette “anche” di scrivere, di scattare foto, filmare e registrare, e inviare e ricevere parole e immagini, fisse e in movimento, musica e rumori di fondo. Ha App per apparire appieno appena necessario, per gli appunti e gli appuntamenti, per sgridare gli apprendisti e apportare migliorie, fornire apposizioni (e aggettivi) col dizionario apposito, appartarsi e appisolarsi (spegnendolo), apprendere le lingue straniere, appurare la verità, generare appetiti di ogni tipo sino all’appello finale dove giudici sono i lettori che se non sanno leggere almeno capiscono le figure.
BARNUM nasce in questa epoca, ma non ha dimenticato la lezione appresa prima dello tsunami.
Massimo Pacifico da ragazzino voleva fare l’entomologo. Gli piaceva la parola. Una pessima insegnante di scienze e le vicende del ’68 lo spinsero invece ad iscriversi a una facoltà di Scienze Politiche. Lo fece e, dopo la laurea alla Cesare Alfieri di Firenze, vittima del contagioso morbo della fotografia, decise di dedicarsi al fotogiornalismo. Ha prodotto da allora centinaia di fotostorie dai cinque continenti per prestigiose testate internazionali. Nel 2006 tenta di accomodarsi dietro una scrivania e fonda, a Milano, la rivista Verve. L’avventura dura quattro anni, una vita per una testata che ha come sottotitolo “il lusso di conoscere”. Non contento, l’anno dopo, inventa e dirige Bogart “journal universel”. La crisi dell’editoria su carta decreta una fine repentina per il “journal”, solo sette numeri. E allora inventa Barnum, il gran circo della conoscenza e dell’informazione, del giornalismo, della fotografia e di tutto ciò che ancora, almeno virtualmente, odora d’inchiostro.
“Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… Lei mi crede pianista in un bordello”. C’è voluta tutta l’ironia di Jaques Séguéla per far capire quanto sia difficile spiegare ai più cosa significhi lavorare nel mondo della comunicazione. Il libro citato, è del 1979, io sono nato 3 anni dopo, ma il problema posto allora resta irrisolto. Non suono il piano, però per anni ho studiato musica classica e violino, prima di intraprendere, con il furore dell’adolescenza, la via del rock: chitarra e pedale distorsore. Per il piacere dei miei vicini di casa. Al liceo preferivo le materie umanistiche e assecondavo una “tendenza passionale” al giornalismo. Oggi sono creative web master di Barnum, scrivo per riviste culturali e dirigo due testate on-line. Di più, dopo una laurea in Scienze della comunicazione, un master presso la Business School de “Il Sole 24ORE” e un master conseguito a Bruxelles, diversi anni vissuti a Milano come responsabile di relazioni con i media per multinazionali e holding finanziarie, ho fondato una società di consulenza, la DMG Comunicazione, che pretende tutto il tempo che Barnum mi lascia libero. Di cosa mi occupo dunque? Chiedetelo a mia madre!
Londinese di Chelsea, ha passato l’infanzia tra Kensington e l’Oxfordshire, in una fattoria dove spesso apparivano i genitori, ambedue protagonisti dei set di Hollywood e dei palcoscenici del West End. Nel 1966 il padre la spedisce a Firenze dove, insieme ai tanti ragazzi che diventeranno gli Angeli del Fango, sgobba per liberare i capolavori librari della Biblioteca Nazionale dal cocktail di melma e petrolio che li ricopre, in seguito all’esondazione dell’Arno. Con la città di Michelangelo è amore a prima vista, e Jemima,come molti altri angeli, rimane nella capitale del Rinascimento in una sorta di inconsapevole sfida al Bello che risorge! Diventa fiorentina. Seguono anni di continui traslochi in Europa, con una famiglia che cresce senza soste. Ora vive l’idillio delle colline toscane con figli, nipoti e cani anche loro in perenne andirivieni. Passeggia nei boschi più volentieri che in via Tornabuoni, e, se c’è bisogno di legna per la stufa, maneggia con destrezza anche l’ascia. Traduce nella sua lingua madre per continuare l’incessante vagabondaggio tra le due culture che più l’ hanno coinvolta. Ama i cavalli, la pet therapy, e i tea parties privati nei boschi con i suoi amici elfi. E il vino bianco ghiacciato. Il Chianti sembra aver definitivamente stregato l’angelo che nel fango continua comunque a sentirsi a suo agio. Chi lo avrebbe mai detto per una nata a Chelsea?
Francesco Chiacchio è nato nel 1981 a Firenze dove conduce l’esistenza dividendo spesso un foglio immacolato con l’ombra di una matita. Disegna, dipinge e fa collage. Ha illustrato libri, copertine di dischi e brevi storie a fumetti. Nel 2009 ha realizzato le immagini per il progetto multimediale X (Suite for Malcolm), composta dal sassofonista Francesco Bearzatti per il suo Tinissima Quartet, presentato in vari paesi d’Europa e negli Stati Uniti. Ama coltivare le parole nell’orto-grafia, annaffiarle con segni differenti, guardarle crescere da lontano e coglierle in un disegno. Dal 2010 al 2012 ha collaborato alle pagine culturali de la Repubblica di Firenze. Vive con un occhio di riguardo all’altro occhio, e viceversa.
Gli amici la considerano un’esteta e, anche lei ammette di esserlo. Folgorata, durante i suoi studi liceali, da testi di autori come Joris-Karl Huysmans e Oscar Wilde, sviluppa una spiccata sensibilità verso ogni forma di bellezza tanto da chiudere la porta alle materie scientifiche sulle quali aveva dapprima puntato. S’iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia alla Cattolica di Milano. Cinque anni dopo, si laurea in Storia dell’Arte, e in seguito in fashion styling, perché proprio nell’arte e nella moda, Domizia, intravede il suo futuro professionale. Col diploma in borsa comincia a destreggiarsi tra uffici stile, per i quali svolge ricerche di tendenza, e redazioni dove si confronta con le tematiche più affini alle sue inclinazioni. Inizia la sua carriera nella casa di moda Gucci per passare presto negli studi televisivi di Class Editori – CNBC. Economia? No di certo! Anche in TV trova la sua nicchia occupandosi di arte. Oggi collabora con diverse testate anche con servizi sull’antiquariato alla ricerca di collezionisti bizzarri sparsi per il pianeta ed ha accettato l’invito di Barnum di proporre le sue scelte al variegato pubblico della Rete.
Franco Andreucci, è nato a Certaldo (paese fra Siena e Firenze, noto per le cipolle e per Giovanni Boccaccio). Già professore di Storia contemporanea all’Università di Pisa dal 1975 al 2013, è stato Jean Monnet Fellow all’Istituto universitario europeo e ha insegnato a Barcellona, Chicago e Marburg. Si è occupato di storia del socialismo, del marxismo, della socialdemocrazia tedesca e del partito comunista italiano. Tra i suoi libri Falce e martello. Identità e linguaggi dei comunisti italiani fra stalinismo e guerra fredda e Visioni del comunismo. H. Lasswell, N. Leites e B. Wolfe fra politica e scienze sociali. Entrambi abbastanza noiosi. Sarà presto in libreria Da Gramsci a Occhetto. Nobiltà e miseria del PCI 1921-1991. Per questa sua ultima fatica l’editore gli aveva chiesto una “fascinating narrative”. Karen, sua moglie, aveva subito chiosato che scrivere una “fascinating narrative” del comunismo era un’impresa impossibile, quasi un ossimoro. Vedremo se aveva ragione. Franco abita a Firenze, a Chicago e a Salina. Non se ne lamenta.
Dice di sé: “Italiano di adozione e di professione, francese di nascita e di formazione: nessuno è perfetto!” Designer di successo, crea nel suo studio di Milano, prodotti innovativi nei settori dell’high-tech. Nel 2000 vince il Premio Smau Industrial Design, e, nel corso degli anni, alcuni suoi prodotti sono stati selezionati dal Museum of Modern Art di New York. Appassionato di nuove tecnologie, diventa anche, quasi per caso, giornalista freelance, e i settimanali Il Mondo, l’Europeo, Epoca, Soprattutto, e nòva del Sole 24 Ore gli chiedono di collaborare alle loro rubriche di tecnologia; anche la RAI lo adotta come consulente tecnico scientifico per la trasmissione I Cervelloni. Per Mondadori ha pubblicato nel 2008 l’Atlante dell’architettura contemporanea in Europa.
Il suo blog Futurix esplora dal 2009, il meglio dei possibili scenari futuri nel campo della tecnologia, di Internet, del design, dell’architettura, dei nuovi concept, delle nuove interfacce, della realtà aumentata.
Daria Petrilli, romana, è illustratrice di rango. Lavora per l’editoria e la pubblicità e ha avuto molti riconoscimenti soprattutto nel settore dei libri per l’infanzia. Menzioni e premi le sono arrivati anche dalla Biennale dell’Illustrazione di Teheran nel 2000; nel 2005 in occasione della mostra “Dalla fiaba al manifesto” per il bicentenario di H. C. Andersen ad Abano Terme, dall’Accademia Pictor di Torino nel 2006, 2007, 2008; da Illustrarte di Lisbona nel 2008 e da Bologna Fiera nel 2011.
Membro dal 2005 dell’Associazione Italiana Illustratori, ha ricevuto l’Award per i suoi lavori nel 2005, 2006, 2007, 2008.
Fiorentina, vive a Milano da oltre venti anni senza aver perso neanche un briciolo del suo accento toscano. Giornalista – lei aggiunge “sbagliata” – scenografa, stylist, illustratrice e, suo malgrado, massima autorità nostrana in fatto di arti applicate e hobby creativi. Consulente editoriale e autrice compulsiva di libri, manuali e opere collezionabili, è stata tradotta in quattordici lingue. Per dieci anni è stata la mano e la testa di Creare per Casaviva di Mondadori.
Attualmente dirige la rivista on-line DONNARITA e non disdegna di apparire in trasmissioni televisive di grande popolarità. Il suo ultimo libro Il mondo di Donnarita è appena arrivato in libreria per l’editore Giunti.
Nato ad Altamura, in Puglia, nel 1973, Carmelo lavora nel suo Paese come maestro di scuola primaria specializzato nel sostegno ai bambini diversamente abili. Si dedica alla fotografia da non professionista da oltre venti anni. E’ membro del collettivo fotografico italiano Spontanea.
Riserva il suo sguardo trasversale a generi fotografici affatto diversi e dedica particolari attenzioni al mondo del food; agli stili di vita; alla decorazione e all’architettura di interni; al design e ai luoghi, abitati e non. Ricerca nell’armonia dei dettagli le metafore del tutto.
Dal 1990 tiene mostre personali ed è invitata a partecipare a rassegne collettive. Collabora regolarmente con testate prestigiose come Marie Claire, Marie Claire Maison, Vanity Fair, The New York Times Magazine, Glamour France, Saveur, Art Culinaire, Travel & Leisure, Monocle.
Nel 2011 ha vinto il primo premio al Food Photo Festival di Tarragona, nella sezione Feature, per il miglior reportage dell’anno. Alterna il nomadismo a viaggi stanziali tra le pareti del suo studio. Oltre a fotografare, cucina e divora cibi che arrivano da tutto il pianeta, e… riesce comunque a mantenere una impeccabile silhouette.
Grazie ai continui incontri ravvicinati coi grandi chef e alle frequenti visite ai migliori ristoranti del mondo, si trasforma, all’occorrenza, in critico gastronomico.
Veneziana, vive a Milano.
Martin Maleshka è nato nel 1982, nei pressi di Eisenhuettenstadt città sul confine polacco nella provincia dell’Oder-Spree e che per un breve periodo assunse il nome di Stalinstadt. Laureato in architettura all’Università del Brandeburgo ha incominciato nel 2006 a collezionare (sue) immagini dei centri urbani della (ex) Germania Democratica e a pubblicarle su due pagine di Flickr: Kunst am Bau e DDR & Martin Maleska. A oggi sono più di ottomila le fotografie on line: la più dettagliata raccolta di fotografie di tal fatta. Il suo lavoro gli è valso riconoscimenti internazionali come il primo premio della rivista Arch+magazine nel concorso per la grafica nella comunicazione. Vive a Cottbus, non troppo lontano da Berlino.
Da oltre un ventennio studia e scrive di arte contemporanea – se contemporanea è ancora l’arte del Novecento – con uno sguardo speciale dedicato alla scultura. Insegna storia dell’arte, e non le dispiace affatto. Si è dedicata alla curatela di mostre e collane editoriali. Ha pubblicato per Marsilio L’arte italiana del 900, la Toscana, per E-ducation Scala Group Henry Moore e la fortuna della scultura en plein air e Cézanne et la naissance de la peinture moderne. Ha collaborato con i fiorentini Museo Marino Marini, Galleria degli Uffizi, Galleria d’arte moderna e Museo del costume di Palazzo Pitti, con il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato, il Mart di Rovereto, la Henry Moore Foundation di Leeds, la Fondazione Primo Conti di Fiesole, la Biennale Internazionale Città di Carrara, il Festival dei Due Mondi di Spoleto, la Fondazione Ragghianti di Lucca. Coltiva una passione per i viaggi con macchina fotografica a tracolla, per la musica del ‘900, per l’orto. Adora i sentieri del Chianti, territorio dove, quando non è in trasferta, vive.
Brunella Fratini fa la fotografa a Vasto, in Abruzzo. Colpita dal virus dell’immagine in età preadolescenziale, dopo il “classico” segue i corsi della facoltà di Scienze della Comunicazione a Teramo e inizia la sua carriera come fotocronista alla redazione pescarese de Il Messaggero. Poi passa a l’Unità a Roma. Ma la cronaca le sta stretta. La attraggono di più il paesaggio e le trasfigurazioni intime. Torna così nell’Abruzzo natale, dove si concentra su storie “banali”, quelle che non interessano ai giornali. Non disdegna la fotografia pubblicitaria, ma preferisce produrre immagini per la scuderia della galleria online Saatchi, con successo. E dedicarsi, di tanto in tanto, a progetti di Land Art. E ora collabora con BARNUM.